Tra la seconda metà degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, mentre l’Italia si apriva alla novità della pittura informale, la scelta del linguaggio figurativo si presentava come decisamente problematica. La questione non era scegliere tra astrazione e figurazione, anche perché, almeno per la generazione dei più giovani, i due termini non rappresentavano i poli di un’inconciliabile contrapposizione, ma piuttosto due aspetti diversi di una più ampia ricerca linguistica. Si trattava, invece, di creare un linguaggio sintetico, eppure affabulatorio ed evocativo, capace di esprimere la complessità del reale. Un linguaggio che tenesse conto della rivoluzione linguistica che i media andavano operando, ma anche dell’influenza che essi cominciavano ad esercitare sull’immaginario collettivo e che contemporaneamente, pur confrontandosi in maniera dialettica e costruttiva con la tradizione, potesse andare oltre. Oltre la rappresentazione per indagare la problematicità del reale, attraverso gli strumenti di una pittura capace di esprimere il vuoto dei valori e soprattutto le inconciliabili tensioni di una crisi in atto, ma anche in grado di dare voce ai fermenti intellettuali, alle ideologie politiche e all’impegno sociale di quegli anni. È in questo clima di fervore che giunge a maturazione per Emanuele Floridia, Federico Gismondi, Adolfo Loreti, Italo Palumbo (poi Italo Scelza) e Fernando Rea l’impegno verso l’arte, che si materializza nella scelta di un linguaggio figurativo inteso inevitabilmente come rinnovato e costruttivo confronto con la realtà, non per fuggire lontano dai problemi di una quotidianità sempre più complicata, ma per contribuire fattivamente al necessario cambiamento della società, trasformando di segno la crisi dei valori che la caratterizza. Un impegno perseguito con tenacia e rinnovato sempre, fino ad oggi, in cui l’interesse verso la figurazione, sopravvissuto alle evoluzioni del gusto e dell’estetica, sembra riacquistare una certa centralità, nell’ambito del ben più ampio dibattito intorno all’arte e alla sua funzione. I poli entro cui si muovono per la costruzione di un linguaggio figurativo attento a sviscerare l’irrazionalità di una società sempre meno pronta a cogliere e accogliere i bisogni più veri dell’uomo, in nome di un benessere diffuso, sono da una parte il realismo sociale, strettamente legato alle direttrici ideologiche del partito comunista e dall’altra il rinnovato interesse per le poetiche dell’immagine, rifiorito negli Stati Uniti e in Europa. La posizione è dialettica nei confronti di entrambe le proposizioni: la strada seguita è però quella di una nuova figurazione, che superando ogni citazionismo e ogni tentazione rappresentativa potesse prendere coscienza della realtà esterna, in continua trasformazione sotto il peso di incontenibili tensioni, nuovi stimoli e altri valori. Nel desiderio di confrontarsi con la quotidianità dell’esistenza nel 1963 questi giovani pittori, allora poco meno che trentenni, tutti operanti nel territorio frusinate, dove sono nati o si trovano a vivere, danno vita al Gruppo 5 di Nuova Realtà, che in maniera esemplare riassume e incarna i fermenti intellettuali, le ideologie politiche e l’impegno sociale di quegli anni cruciali. La scelta del linguaggio realista, sia pure nutrita con originalità dalle esperienze informali, pur rimanendo organica alle direttrici ideologiche legate alla radice comunista, è in polemica opposizione con certa retorica di partito e, inevitabilmente, con le posizioni di Renato Guttuso che meglio la interpretavano. L’intento programmatico, schematicamente riassunto negli scritti che accompagnano le prime mostre collettive, è quello di andare oltre una semplice e, troppo spesso, semplicistica ri-proposta figurativa in senso stretto, per stabilire, invece, relazioni complesse con il reale, sollecitare con esso riagganci anche di ordine storico e restituirne visionariamente la verità, al di là di ogni descrizione banalmente veristica. Ma, soprattutto, dopo aver preso coscienza del peso della realtà, di indagare incisivamente la sua complessa problematicità e lo spaesante rapporto dialettico instaurato con l’uomo che di essa è l’anima. Il disinteresse verso la rappresentazione, ambigua messa in scena della realtà falsata da un’impossibile oggettività, li proietta direttamente al centro del dibattito che fino alla fine degli anni ’60 accompagna la difficile scelta della figurazione, e inevitabilmente, li pone in un atteggiamento dialettico e allo stesso tempo lucidamente critico nei confronti della realtà stessa che sfocia in quella pittura di protesta, di contestazione, di denuncia dei vuoti valori e di una ritualità disumana, imposti all’uomo in nome di un universale e irraggiungibile benessere, che caratterizza, sia pure con imprescindibili differenziazioni linguistiche, la ricerca del gruppo. Le loro immagini, cariche di energia fin quasi a diventare violente o misteriosamente sospese in una disarmante dimensione di ricercato silenzio, non rappresentano ma significano la ribellione contro tutto ciò che mortificando l’uomo ferisce a morte la terrestre verità dell’esistenza. Arte, quindi, come partecipazione, come possibilità di stare dentro le contraddizioni della vita, della sua realtà, della sua quotidianità per comprenderne il senso e superare l’inquietante precarietà che la pervade. Dagli anni ’70 i rapporti si allentano (l’ultima mostra cui partecipano tutti e cinque come gruppo risale al 1968: Testimonianza per il Vietnam, Sala dei Congressi dell’Alleanza dei Contadini, Frosinone), ma l’esigenza di confrontarsi costruttivamente con la realtà attraverso la fertile frantumazione dei linguaggi dell’arte li spinge sempre verso altre sperimentazioni, tanto che ancora oggi (se si esclude Emanuele Floridia, prematuramente scomparso nel 2002) sono ancora tutti attivi nei differenti territori della ricerca contemporanea. Nel corso di un quarantennio, infatti, per loro non sono mai venute meno le tensioni creative, intese come insopprimibile spinta alla ricerca, né la capacità di trasformare, grazie a fertili contaminazioni, spaesanti sconfinamenti e multiformi manipolazioni, un linguaggio codificato nel tempo. Proprio la capacità di essere sempre diversi, pur mantenendo una rigorosa coerenza con le proprie radici culturali e con le motivazioni profonde di una scelta operata in gioventù, senza privare se stessi del piacere della rottura, della discontinuità e anche della devianza rispetto alla strada maestra, ha caratterizzato e caratterizza inconfondibilmente il linguaggio di questi cinque artisti, accomunati, al di là delle inevitabili e stimolanti differenze, dalla volontà e dal desiderio di cercare e ricercare sempre altri stimoli e nuove occasioni di confronto.
Loredana Rea