Ogni qual volta, per un particolare accadimento del destino, o per l’occasionale suggestione d’un momento, la mente venga spinta a ripercorrere, in un flash improvviso, le piste memoriali di quel fine inverno del 1956, sono immagini che emergono come fotogrammi sommersi dal profondo, o sensazioni perdute che si fanno immediatamente e sensibilmente riconoscibili alla coscienza.
Immagini sempre le stesse. Immagini sempre vivide e al tempo stesso come distanziate in una sfocatura che ne sfrangia, confondendoli, i contorni, quasi ritagli di un onirico paesaggio della mente.
Sono le immagini del volto appoggiato al vetro della finestra, a sera, a perdere lo sguardo dietro e dentro la cortina dei fiocchi interminabili, se dopo giorni e giorni nevicava ancora; o a scrutare il cielo, acceso d’un riverbero glaciale, fissi noi e tesi a cogliere il minimo segnale di una prossima ripresa, nelle serate in cui la neve sembrava essersi allontanata e noi eravamo tutto un desiderio e una speranza che riprendesse, incontenibile, a cadere.
Perché, sì, ci eravamo abituati a quell’eccezione che sembrava voler spodestare e prendere il posto della norma. E ci piaceva questo sovvertimento paradossale dell’ordine delle cose.
Non che ci sfuggissero, o non fossimo avvertiti delle difficoltà, dei problemi, dei disagi che quell’eccezionale protrarsi del fenomeno poteva arrecare alla vita del Paese.
Ma eravamo giovani, molto giovani, ed eravamo studenti, il cui mondo ruotava intorno alla scuola (frequentavo, allora, la seconda classe del liceo classico Norberto Turriziani), allo studio, allo “struscio” serale, agli incontri con gli amici, alle ragazze più sognate che frequentate … e, all’improvviso, ecco la neve. Non una spruzzatina di talco una tantum, a cui eravamo abituati, ma un rovescio quasi senza soste, per giorni e giorni e settimane, con qualche brevissimo intervallo, e poi di nuovo giù a sovvertire completamente abitudini private e pubbliche, paesaggio urbano ed orizzonti.
Il protrarsi della neve veniva a segnare, per noi, una frattura fino ad allora inconcepibile nello scorrere usuale dei giorni, un’interruzione nel ritmo conosciuto e sperimentato del tempo, un’esperienza sconvolgente di fuoriuscita del tempo da se stesso. Insieme con una lunga e inattesa sospensione dell’attività scolastica.
E già questo non era poco! Ma ciò che più ci affascinava, ciò che più ci spingeva a desiderare, con dionisiaco empito irrazionale, che continuasse a nevicare, a nevicare, senza sosta, era proprio quella “sospensione” straordinaria del tempo, che avvertivamo e che ci rapiva i sentimenti.
Quell’esperienza paradossale di un tempo fuori del tempo, appunto.
Per la prima volta sperimentavamo, o forse solo intuivamo (ma poco importa la differenza), la possibilità di un tempo diverso, di un tempo che non fosse quello della durata lineare e successiva.
Conoscevamo come uno stop lacerante e inebriante nello scorrere normale delle ore, un prolungato e bianco sbadiglio nella corsa inarrestabile e progressiva degli eventi. Un’irripetibile vertigine di spaesamento. Meravigliosa e irripetibile.
Perché eravamo molto giovani –dicemmo- e perché nevicava come nei miti o nelle fiabe, nevicava continuamente.
di Alfonso Cardamone