Frosinone, i tedeschi la occupano tre giorni dopo l’armistizio.
Ma per il capoluogo non è l’unica sorpresa di quel sabato 11 settembre.
Saranno state circa le 22 quando la sirena posta sul campanile e azionata dalla Prefettura infrange il silenzio della notte: aerei alleati stanno per sorvolare la città che, intanto, viene illuminata a giorno da centinaia di razzi che creano un’atmosfera irreale ed allucinante.
La contraerea tedesca, prima con le batterie poste all’aeroporto e poi con quelle sparse in varie parti della città, non si fa attendere, divenendo ben presto, però, il bersaglio preferito degli aerei.
Le bombe cadono un po’ dappertutto colpendo, più o meno gravemente, l’abitato: dal Liceo-ginnasio, letteralmente sventrato, al convento delle suore di Sant’Agostino in via Cavour, ridotto ad un mucchio di rovine, all’ospedale, che si trovava allora “sul punto più alto di via Diamanti”, di cui furono fortunosamente risparmiati la farmacia, qualche locale dei piani superiori e tutto il piano inferiore.
Qui, però, non si registrano morti e feriti. Le conseguenze, invece, sono pesantissime nel vicino quartiere di San Martino: alla fine del bombardamento i morti saranno circa una ventina; imprecisato il numero dei feriti. Vediamo come cominciò, con la testimonianza di Luciano Renna: “Erano le ore 21 dell’11 settembre 1943.
Con mia madre, di ritorno dalle vacanze, mi ritrovai nell’androne d’un caseggiato, proprio alle spalle della chiesa di Sant’Antonio, stile barocco: quella fatta fuori dopo la guerra (e non si sa ancora bene perché) in cui don Valentino seguiva i fedeli della zona. “Ero, in pratica, sotto quel ‘mostro’ di cemento scuro, sede del Norberto Turriziani, oggi solo Liceo Classico, che, fiato sospeso, raggiungevo tutte le mattine, evitando i grandi, per entrare nella mia classe (II A) della Scuola Media Ricciotti, dove ad attenderci c’era la professoressa Cavazzuti, curatissima nei suoi boccoli neri a cascatella.
L’aula era quella in cui oggi hanno ricavato spazi per la II B e la III C liceale. “Dicevo dell’androne. Ci avevano spinto lì dentro i tedeschi. Giacomo, il ‘facchino’ che ci portava le valigie, s’era dissolto nel buio. Qualcuno seguitava a gridare: ‘Coprifuoco! Coprifuoco! Sparite!’ Le sirene per l’allarme aereo stavano diventando un’ossessione.
Poi la Cicogna - non quella che porta i bambini, almeno così credevamo noi ragazzi allora - ma un velivolo silenzioso quanto da brivido per quei suoi bengala lanciati a decine per illuminare la città a giorno, preparando l’obiettivo ai bombardieri. Fu un inferno di paura in quell’androne.
E fuori.
Primo attacco aereo su Frosinone. La contraerea automontata dei tedeschi, mitraglia a quattro canne, faceva la spola tra la collina del Turriziani e piazzale Veneto. Non so se, in quei momenti, ho temuto per la ‘mia’ scuola ospitata alla sommità di via Acciaccarelli. Quasi certamente non ne ebbi nemmeno il tempo. Stavo vivendo la tragedia della guerra. Di certo, quell’edificio non mi era sembrato mai tanto importante. Ma vederlo il giorno dopo sventrato da una bomba che aveva scavato un cono rovesciato proprio al centro di esso mi fece male assai, anche se vidi benissimo che la ‘mia’ aula non era stata danneggiata.
Mi resi subito conto, invece, dell’importanza di quella struttura, di un singolare affetto che mi legava ad essa, pur se, per tante mattine, prima di quella notte da incubo, avevo raggiunto la Prebenda sempre con il cuore in gola: ‘Sarò interrogato, oggi? E da chi?’”(1) A parte alcuni padri Redentoristi, l’unico sacerdote che è rimasto a Frosinone è don Luigi Minotti. (2) Come egli stesso avrebbe poi raccontato(3), “da alcuni giorni non si sa come e con quale fondamento si era diffusa la voce di un imminente bombardamento su Frosinone: per questo motivo, molta gente la sera usciva per rifugiarsi nelle case di campagna di amici, parenti e conoscenti.” “La sera di quell’11 settembre - ricorda don Luigi - l’esodo dalla città per fortuna era stato totale.
E per fortuna, altrimenti il numero delle vittime sarebbe stato molto alto.” A un certo punto “la città e la campagna circostante furono illuminate a giorno dai bengala, tanto che si sarebbe potuto raccogliere un ago a terra. “Scattato l’allarme, tutti coloro che non erano usciti la sera per portarsi altrove per passare la notte si rifugiarono nei pochi rifugi che erano stati allestiti e che in verità, ad eccezione dei tunnel delle Ferrovie Vicinali, cioè quello di Sant’Antonio e quello dell’Alberata, ed in parte di quello sottostante l’ufficio del Genio civile di via Garibaldi, sarebbero state vere trappole della morte se colpiti.” Don Luigi racconta ancora la sua personale esperienza: “Uscii di casa a bombardamento iniziato insieme con mia sorella Giovanna e con Pietrino Conti, coperto perché febbricitante, che abitava di fronte al mio appartamento nel palazzo Cagiano in via Garibaldi. Ci rifugiammo tutti e tre nell’atrio di palazzo Marchioni, che era proprio di fronte, e lì rimanemmo per qualche minuto.
Poi il lucernario crollò e allora uscimmo per rifugiarci nel vicino rifugio del Genio civile. Lo trovammo gremito di gente che gridava e piangeva: prima invitai tutti alla calma e alla preghiera e poi a recitare l’atto di dolore insieme con me, cosa che tutti fecero. Quindi detti loro l’assoluzione generale. “Intanto il bombardamento continuava. Cessato dopo circa venti minuti il fragore delle bombe aeree, così come mi trovavo vestito, e cioè di un pastrano, e calzando le sole scarpe dal momento che non avevo avuto il tempo di infilarmi le calze, uscii da solo e mi portai subito nel vicino ospedale civile sito in via Diamanti dove trovai la massima confusione. Gente che gridava e piangeva, giacché uno dei dormitori del piano superiore era stato colpito. Cercai di raggiungerlo ma non potei perché una scala era crollata. Un adolescente, certo Rossi, aveva le gambe amputate.
Gli detti l’assoluzione e lo lasciai in cura ad alcuni presenti fra i quali i suoi genitori. “Proseguii per via Garibaldi fra i rottami e le pietre di qualche casa che era stata colpita. Arrivato in piazza Garibaldi trovai quasi nuda la barista Maria Antonelli che, colpita al ventre, gridava aiuto.
Corsi subito al rifugio e chiesi se c’era qualcuno di buona volontà che volesse andarla a prendere. Si prestarono il signore Ademaro Gennari, allora soldato, e Lillino Filoni: adagiata la ferita su una seggiola a vimini, la portarono al pronto soccorso dell’ospedale dove fu medicata dall’infermiere Armando Conti e quindi sul far del mattino avviata all’ospedale di Alatri. Mi portai dopo al Colle Campagiorni e, nella parte alta, in mezzo alla strada, rinvenni, morto, l’agente di pubblica sicurezza Fabrizio D’Ulizia, a me ben noto. Sentivo grida e salii sulla casa da dove esse venivano: ferito gravemente ad una gamba trovai suo figlio Giorgio che perdeva abbondantemente sangue (…). Mi tolsi allora la camicia e gli feci, come potei, una legatura che gli impedisse l’emorragia. Lo presi in braccio e lo portai al rifugio del Genio Civile dove chiamai l’infermiere Conti affinché gli facesse una accurata medicazione, come di fatto fece. “Uscii di nuovo e andai lungo il corso.
Arrivato all’altezza dell’attuale Biblioteca comunale mi fu molto difficile passare perché le macerie delle case, colpite sia a destra che a sinistra, erano alte. Scesi alcuni metri prima del palazzo dell’Intendenza di Finanza: sotto l’arco di detto stabile, che era crollato, c’era gente che si lamentava chiedendo aiuto. Era gente che si era rifugiata lì credendo di stare al sicuro. Non potendo far nulla per loro mi portai in Prefettura per segnalare la cosa. Trovai il maggiore Rossi di Priverno il quale, mettendosi le mani nei capelli, mi disse: ‘Don Luigi, qui non è rimasto nessuno e le comunicazioni sono tutte interrotte. Ci sono - aggiunse - delle barelle sotto il porticato della Prefettura.
Cerca di trovare persone di buona volontà che vogliono seguirti per soccorrere i feriti!’. “Di nuovo andai al rifugio di Via Garibaldi e quattro uomini di cui ricordo il ragionier Ferrara, il signor Radaelli e la signorina Sternotti, che ci fece luce con una lampadina elettrica tascabile, vennero con me e presa una barella andammo sul posto: trovammo, tra gli altri, un soldato morto e gravemente ferita la madre di Paolino Colapietro”, che fu trasportata al pronto soccorso. “Tornai da solo sul posto - continua nel suo racconto don Luigi - e vi rinvenni ferita alla testa nella sua abitazione Maria Teresa Turriziani sorella di Antonio, padre di Norberto, ed andai ad avvisare il signor Arduini Vincenzo che abitava nell’attuale via Brighindi perché avvertisse i coloni [di Maria Teresa] per soccorrerla. “Arrivai così alle prime luci dell’alba allorché i primi soccorsi organizzati si misero in moto trasportando i malati e i feriti all’ospedale di Alatri ed approntando un pronto soccorso nell’attuale edificio scolastico Pietro Tiravanti” soprattutto con l’apporto “pronto e decisivo del valente infermiere Armando Conti” (4) e del custode Gabriele Cupini.
Questa fu la lunga notte di don Luigi Minotti che, come era solito ricordare Antonio Altobelli, forse più noto come “Juccio”(5), suo grande estimatore, “correva per ogni dove. Benediceva i morti, confortava i morenti, soccorreva i feriti…”(6) Il bombardamento - che, si saprà poi, era stato eseguito da aerei della R.A.F., l’aviazione inglese - ebbe come bersaglio anche l’aeroporto dove vennero colpiti gli aerei parcheggiati sulla pista, i depositi di carburante e la non lontana villa Napoli, che i tedeschi avevano trasformata in infermeria.
Il giorno dopo, verso mezzogiorno, si replica ma stavolta a compiere l’attacco saranno gli americani con i loro bombardieri quadrimotori B l7. Pesante il bilancio delle vittime fra i militari tedeschi di stanza presso l’impianto aeroportuale: si conterebbero, infatti, 70 morti. Quella mattina Virgilio Reali (7), in compagnia di Alberto Pignatelli, stava cercando di tornare alla sua Ferentino. Allievo ufficiale dell’VIII Reggimento artiglieria pesante campale di stanza alla Cecchignola, Virgilio era partito da Roma dove, qualche giorno prima, il 9 settembre, aveva preso parte al combattimento di porta San Paolo tra tedeschi e militari italiani che cercavano di contrastare gli uomini al comando del maresciallo Albert Kesselring.
Dopo un fortunoso viaggio, compiuto parte a piedi e parte in treno, o meglio a cavalcioni dei respingenti di un vagone, appena giunto alla stazione di Ferentino la sua attenzione fu attratta da uno spettacolo allucinante: “Vedemmo Frosinone bombardata dalle fortezze volanti. Tutta la cittadina era immersa nel fumo, da cui emergevano lingue di fuoco, e giungevano boati assordanti.
Ebbi la certezza che il nostro territorio era diventato fronte di guerra.”(8) Il bombardamento del 12 settembre, anche se non ci vuol molto a capire che aveva l’aeroporto come bersaglio principale, naturalmente non risparmia l’abitato di Frosinone dove, oltre a registrarsi consistenti danni ai fabbricati, viene sospesa per tre giorni l’erogazione dell’acqua e dell’energia elettrica. I morti di quel giorno sarebbero 14 mentre è imprecisato il numero dei feriti in quanto smistati negli ospedali di Alatri, Veroli, Sora e all’inverosimile divenendo, riferisce padre addirittura Roma (9). Insomma, più di un motivo per abbandonare la città e dirigersi verso località che si ritengono meno esposte. Non tutti, però, hanno punti di riferimento fuori Frosinone in grado di garantire loro una tranquillità anche approssimativa.
Cosicché, alcuni di quelli che restano privilegiano i rifugi ricavati nel tunnel dell’Alberata ed in quello di Sant’Antonio che ben presto si riempiono all’inverosimile divenendo, riferisce padre Tatarelli, “la casa di qualche centinaio di persone per tutto il tempo dell’occupazione tedesca, con quali condizioni igienico sanitarie è facile immaginare. “Le mura trasudavano abbondantemente di umidità; i piedi si muovevano in una mota viscida ed incredibilmente sudicia; il fumo dei fuochi accesi per cuocere cibi, non avendo uno sbocco nell’aria libera, si addensava nell’ambiente basso, rendeva l’aria irrespirabile e bruciava agli occhi.
Bisognava riparare perfino i letti e i giacigli improvvisati dalle colate di acqua non propriamente limpida che veniva dalla volta. “Ci siamo avventurati più di una volta in quel cunicolo fumoso e maleodorante per consolare i rifugiati”, ricorda padre Tatarelli. “E insieme a un senso di carità immensa per quegli infelici abbiamo anche provato profonda ammirazione per tanti nostri fratelli che subivano quella tristissima sorte con serenità e rassegnazione cristiana.”10 Un piccolo mondo, insomma, dove, anche se si viveva in condizioni che definire disagiate significherebbe farle apparire quanto meno ottimali, tuttavia non mancavano momenti di gioia e di dolore, le une e gli altri derivanti dai naturali ritmi della vita scanditi, anche in quell’allucinante contesto, da innamoramenti, nascite e morti.
Frosinone è ormai quasi del tutto deserta, sconvolta giorno e notte dall’urlo delle sirene. Insomma, una situazione che favorisce l’azione degli sciacalli che depredano tutto ciò che non si è fatto in tempo a portare via o che si è salvato dai bombardamenti. Questi, dal canto loro, sono visibili per una vasta area circostante il capoluogo e costituiscono quasi una sorta di spettacolo. “Per tutto il mese di ottobre - scrive Alessandro Ciotoli - uno dei passatempi preferiti dai ceccanesi era quello di assistere ai bombardamenti sulla città di Frosinone, dalla zona della piazza, e soprattutto di notte, alla battaglia sul fronte di Cassino, i cui bagliori erano ben visibili dalle colline alle pendici del monte Siserno. Molti giovani, per passare il tempo, raccoglievano scommesse su quale zona del capoluogo fosse stata colpita dalle bombe.”(11) Tra gli altri attoniti spettatori, Angelo Sacchetti Sassetti, che segue gli eventi da Alatri, in data 11 settembre annota nel suo diario: “sembra di assistere a un grande spettacolo pirotecnico”(12); Andrea Sarra, invece, che si trova a Veroli, testimonia: “il cielo era illuminato a giorno, mentre la città capoluogo appariva avvolta da fiamme enuvole di fumo.
Su Veroli passò un ricognitore che accese razzi luminosi sulla villa Campanari, sede del locale comando tedesco, sottostante al muro di cinta del monastero. Lo spavento delle monache fu grande.”(13) Il bombardamento del giorno dopo è, invece, così ricordato da Umberto Caperna: “Si trovava con noi anche un signore di Frosinone, tal Ferrante, rifugiato, anzi si diceva ‘sfollato’ a Veroli con la sua famiglia perchè, rispetto a Frosinone, Veroli offriva maggiore sicurezza per la possibilità di cercare facili ripari nella estesissima campagna e fra le numerose montagne. Improvvisamente sentimmo nel cielo, da Sud, il caratteristico rumore delle squadriglie di aerei (Uhù, uhù, uhù!) e subito comparve uno stormo di fortezze volanti. “Arrivati su Frosinone, sganciarono il loro carico e subito si formarono, quasi a comando, degli enormi coni di gelato con panna, uno vicino all’altro e poi scomparivano. Colonne di polvere si innalzavano fino al cielo. Dopo qualche tempo la polvere cominciò a diradarsi. Guardavamo in silenzio e impotenti lo scenario di morte.
Le bombe avevano colpito l’aeroporto e una parte della città alta. Quel signore, benchè preoccupato per la sorte di alcuni parenti e della sua casa, ruppe il silenzio esclamando: ‘Prò glie campanile è remaste dritte!’ (‘Però il campanile è rimasto in piedi’).”(14) E grande deve essere stato davvero il disastro provocato da questi bombardamenti se il 13 settembre, scrive ancora Sacchetti Sassetti, “due squadre d’internati delle Fraschette sono condotte a scavare tra le macerie di Frosinone.”(15) Insomma, tra occupazione tedesca, bombardamenti alleati e la spasmodica ricerca di una via di scampo non c’è proprio il tempo per rendersi conto di ciò che è accaduto con l’armistizio dell’8 settembre ed in conseguenza di esso.
di Maurizio Federico e Costantino Jadecola