Era una mattina di settembre, alla fine delle ore antimeridiane 11,30 e verosibilmente il 12 settembre 1943.
La giornata era limpida e il cielo era trasparente come un diamante. Proprio nelle giornate serene arrivavano le sorprese, cioè l'aviazione alleata era molto attiva.
Dai monti Ernici era possibile vedere i paesi adagiati ai fianchi della catena dei Lepini e sulla cima del monte Cacume si distingueva nitidissima la grande Croce, eretta all’inizio del secolo.
Mi trovavo con il nonno paterno in campagna tra la grotta e la capanna, proprio ai piedi del Castellone un modesto monte, alto non più di 800 metri e dolcemente degradante dalla parte della Valle del Sacco, anche se man mano che si sale il monte è ricoperto di grossi pietroni disordinati e messi, per così dire, volutamente alla rinfusa, tali da dare l’idea di un paesaggio assai simile a quello della Barbagia.
Quasi certamente molte pietre, che formano la cinta muraria di Veroli, provengono anche dal Castellone.
Sulla vetta del monte l’occhio spazia sicuro senza ostacoli e sembra che due valli, quella del Sacco e quella del Liri, siano unite da una collina pensile sulla quale giace l’acropoli di Veroli.
Nei tempi andati, all'epoca degli Ernici, nostri antichi progenitori e guerrieri audaci, il monte per la sua rilevanza strategica ebbe piccole stazioni di guardia o garitte con dei resti di capanna italica e soprattutto in tempi più recenti sono state ritrovate punte di frecce, ghiande di piombo (pallottole) per frombolieri e una piccola fonderia per le stesse, che testimoniano precisi insediamenti di carattere militare-strategico.
Nella parte opposta, a Nord, questo rilievo, chiamato col nome di monte Castellone, presenta uno strapiombo roccioso, una specie di faglia, talmente uniforme da sembrare una muraglia di cemento, alta circa 100 metri.
Tanto è vero che tutta la zona è denominata “Lu Peschio”, con una pronuncia molto schiacciata che non corrisponde alla realtà ortografica e significa appunto: “Il Sasso”.
Il luogo per la sua sicurezza offriva il rifugio ai falchetti, alle poiane e ad altri rapaci che i contadini, facendo di ogni erba un fascio, chiamano “gli corevi” ossia i corvi. Oggi purtroppo sono quasi scomparsi.
Quando si alzavano in volo a notevole altezza da soli o con la prole in gruppi di cinque o sei in cerca di preda, appena gracchiavano, i polli e gli altri animali da cortile subito correvano al riparo nei nascondigli e le contadine sollecitavano i polli domestici a tornare nei pressi delle case con il caratteristico richiamo: “Uhù! uhù!” Annusando il pericolo quasi per istinto, subito, andavano dalla padrona.
Comunque tali rapaci erano in grado di sollevare con gli artigli anche un grosso gallo, come potei osservare in una certa occasione.
Il luogo, detto “Lu Peschio”, era frequentato, nei momenti di pericolo, da molte famiglie che cercavano la sicurezza e il riparo dalle bombe e soprattutto dalle cannonate degli ultimi giorni di guerra che venivano dal Sud.
Ebbene la mattina prima di mezzogiorno ero con il nonno vicino alla grotta, sotto una grossa pianta di noce, il quale con una pertica cercava di bacchiare le noci, ormai quasi mature e pronte a cadere al minimo colpo. Si trovava con noi anche un signore di Frosinone, tal Ferrante, rifugiato, anzi si diceva, "sfollato" a Veroli con la sua famiglia, perché, rispetto a Frosinone, Veroli offriva maggior sicurezza, per la possibilità di cercare facili ripari nella estesissima campagna e fra le numerose montagne.
Improvvisamente sentimmo nel cielo da Sud il caratteristico rumore delle squadriglie di aerei (“Uhù, uhù, uhù”) e subito comparve uno stormo di fortezze volanti. Arrivate su Frosinone, sganciarono il loro carico e subito si formarono, quasi a comando, come degli enormi coni di gelato con panna, uno vicino all’altro e poi pian piano scomparivano. Uno spettacolo infernale.
Colonne di polvere si innalzavano fino al cielo.
Dopo qualche tempo la polvere cominciò a diradarsi.
Guardavamo in silenzio e impotenti lo scenario di morte. Le bombe avevano colpito l’aeroporto e una parte della città alta.
Quel signore, benché preoccupato per la sorte di alcuni parenti e della sua casa, ruppe il silenzio esclamando: “Pro glie campanile è remaste dritte!” (Il campanile è rimasto in piedi!). Il signor Ferrante cominciò a spiegare al nonno quali zone di Frosinone erano state colpite, indicava le case degli amici ecc.
In seguito agli eventi bellici solo alcuni complessi rimasero in piedi a Frosinone, agibili, sia pure con qualche ammaccatura, dopo cento e passa bombardamenti: il campanile, il palazzo provinciale e il palazzo Valle ecc.
Il resto fu totalmente o parzialmente distrutto.
Questo per dire che il campanile, il quale si trova sul punto più alto della collina, sembra quasi un parafulmine ed è un po’ il simbolo di Frosinone, “punto di riferimento culturale ed urbanistico della città, simbolo della identità cittadina, nobile architettura dotata di “Voce” che scandisce il tempo ed i ritmi delle attività lavorative, invita alla riflessione spirituale e raccorda la città al cielo” (M. T. Valeri). “Glie campanile!”.
di Umberto Caperna