Premessa
ludovico ricciottiSono stato un bambino molto fortunato, perché nella mia giovinezza ho potuto vedere molte zone d’Italia, così profondamente diverse tra loro, quasi antitetiche, ma sempre Italia. E tutto ciò è ancora ben chiaro nella mia mente ed i ricordi sono ancora così forti da porterli raccontare oggi che quell’Italia, anzi quelle zone d’Italia sono così profondamente e radicalmente cambiate. Una di queste è la Ciociaria e, più di ogni altra è Frosinone.
Introduzione
Io sono nato nel 1920 a Savona, porto importante e di grandi tradizioni marinare, ma mi sono sempre sentito di diritto un cittadino frusinate a pieno titolo, dato che Frosinone è la città dei miei antenati, dalla metà del secolo XVI al secolo XIX, periodo nel quale la mia famiglia fu in Ciociaria la fucina del senso di appartenenza alla nazione italiana e dell’amore per la libertà (si veda Nicola Ricciotti, Luigi Angeloni, Luigi Marcocci e Carlo Kambo, solo per ricordarne alcuni!). E proprio a Frosinone avevamo la casa avita e che era un vero museo, anzi, meglio, un sacrario del Risorgimento. In particolare una intera e grande stanza custodiva una infinità di documenti e cimeli di quello straordinario periodo. Ma, soprattutto, proprio dietro una parete della soffitta vi era occultato agli estranei un archivio segreto al quale era difficile perfino accerdervi, dove era custodito tutto il materiale riguardante le attività patriottiche dei membri della mia famiglia, le loro corrispondenze, le loro lettere e, perfino, alcuni importanti cimeli, come quello che più mi interessava allora nella mia infanzia e prima giovinezza, il fucile a bacchetta con la fiaschetta della polvere da sparo e la bandoliera con le tasche per le pallottole, che mio nonno Ludovico Ricciotti aveva usato nel 1867, combattendo tra i volontari garibaldini, insieme ad altri parenti, nelle battaglie vittoriose di Montelibretti e Monterotondo, contro gli zuavi pontifici, e nella infelice giornata di Mentana, combattendo contro i francesi armati dei famosi chassepot, fucili a retrocarica ed a ripetizione che fece strage dei valorosi italiani. Io stesso, lì dentro, tra tutti quei cimeli, quando ero solo, sognavo di essere un garibaldino e di combattere quelle epiche battaglie. Questa è stata la mia vita fantastica e romantica, che trascorrevo tra le mura della casa frusinate, in una sorta di innamoramento irrazionale, attraverso il quale vedevo Frosinone come l’ultimo caposaldo dell’ottocento. Questo secolo io lo giudicavo il migliore di tutta la storia moderna dell’Italia, anzi il secolo d’oro, come gli spagnoli chiamano il loro cinquecento, o il grande secolo, come i francesi identificano il loro seicento. E proprio lì a Frosinone per me vi era l’ottocento italiano, il secolo della patria, dove parte della popolazione, soprattutto i contadini, vestiva ancora il vecchio costume tradizionale con le caratteristiche cioce. Le case erano ancora con i soffitti a travi e travetti di legno a vista, le acquaiole con le loro conche a clessidra che portavano l’acqua, le processioni all’antica, le feste con fantasmagorici fuochi d’artificio e quan’altro.E vi erano anche le torme sciamanti di bambini e di ragazzi, il più delle volte vestiti con pochi abili laceri e strappati, e mi ricordavano tanto i racconti di Matilde Serao, in riguardo agli scugnizzi napoletani, che la scrittrice narrava con occhi benevoli e romanatici, e che mia madre mi soleva leggere. Tuttavia venne il giorno, per tutti noi molto amaro, quando la mia famiglia fu costretta a ritirarsi in Frosinone, dato che mio padre, non volendo affatto aderire al fascismo (non prese mai la tessera del partito, ovvero la cosiddetta “tessera del pane”, così come la si chiamava in quel periodo), fu allontanato forzatamente dal lavoro e da quel momento venne sorvegliato perché considerato un pubblico antifascista. Io ne risentii moltissimo e così passai dal romantico innamoramento al razionale senso dell’amore. Avevo perduto la mia infanzia, che non sarebbe più ritornata, così come gli amici ed i parenti di mia madre, ma tornavo stabilmente, e non solamente per brevi periodi di vacanze, a “casa”, infatti mi rendevo conto, avevo allora quindici anni, di quello che lasciavo per sempre a Savona e di quello che ritrovavo a Frosinone e che sarebbe stato, da allora in poi, il mio presente e il mio futuro. Avevo lasciato una città bella ed efficiente, moderna ed industriale, lanciata verso il futuro, e mi stavo per immergere a Frosinone nel passato. Lasciavo il primo novecento per tornare alla fine dell’ottocento. Eppure, la dittatura fascista, pur nelle sue molte brutture e contraddizioni, cercava di smuovere l’Italia provinciale e sonnacchiosa, che dalle porte meridionali di Roma scendeva, peggiorando, lungo lo “stivale”. A Savona avevo una vita molto attiva: frequentavo la palestra della Società Fratellanza Ginnastica Savonese dove mi ero formato sia il fisico e sia lo spirito, così come l’opera dei marinaretti (dato che mio padre volle che lì svolgessi la mia attività extra-scolastica, in quanto i marinaretti non avevano l’obbligo vi vestire in “camicia nera”!)
Le fasi della mia presenza a Frosinone
All’inizio, da quando sono nato (1920) al 1934, a Frosinone rimanevo da dopo ferragosto a dopo la vendemmia. E’ stato il momento per me migliore. La prima parte delle vacanze la passavo tra Savona, Albissola e Celle Ligure, per i bagni di mare. Dopo si giungeva a Frosinone, dove mio padre aveva una tenuta agricola, tra le attuali via Ciamarra, via della Mola Vecchia, viale Mazzini e il fiume Cosa, mentre la casa avita era posta in via Cavour. Questa vita è stata per me un periodo onirico, cominciando dal viaggio, che era l’attraversamento della Liguria, paesaggio magnifico, tra paesi, mare e montagna ed una infinità di gallerie. Poi la Toscana ed il Lazio. Nella mia immaginazione avevo diviso la Liguria e la Toscana nella zona verde, dal colore dei prati, dei boschi e dei monti. Ed infine, dopo Quercianella, la zona gialla della Maremma, con il suo terreno secco e arso dal sole, i suoi butteri sempre a cavallo, con cappelloni a larghe falde ed in mano una lunga verga, e questi erano nella mia immaginazione i miei cowboys ed i miei gauchos. Mandrie enormi di buoi dalle lunghissime corna e numerosissimi cavalli al brado. Dalla Maremma toscana a quella laziale vi era continuità di vita e colori. Da Civitavecchia a Roma vi era qualche lieve variazione, ma il giallo era sempre il colore dominante. Poi la tappa a Roma con visite ai parenti ed ai monumenti. Poi la partenza. Se prendevamo la linea di Cassino, trovavo la continuità del giallo, interrotto da alcune chiazze di verde, sino a Frosinone dove si vedeva ancora tanta gente nel costume tipico ciociaro. E io avevo la sensazione di essere tornato indietro nel tempo, all’ottocento. Talvolta si prendeva il trenino di Fiuggi, ma questo accadeva di rado, che ci portava direttamente a Frosinone, dopo una fantastica e bellissima attraversata delle montagne. Spesso, invece, si prendeva la direttissima per Napoli, dove ci si fermava alcuni giorni. Qui il paesaggio aveva per me un impressione da sud-est asiatico, con i bufali e le paludi. Infine il trionfo della campagna napoletana, splendida ed esuberante, con i filari delle viti sopra i pioppi, ad una altezza di sei o sette metri, le marcite della canapa ed il correre degli sciarabballe, portati da cavallini “interi” (= non castrati). Giunti a Napoli mi pareva di essere stato catapultato in medio oriente. Città bellissima, canora, chiassosa, elegante e stracciona. Poi l’arrivo a Frosinone. Qui mio padre veniva tutti gli anni per controllare la sua azienda agricola e le altre sue proprietà. Egli aveva una grande passione, sovrintendere personalmente alla vendemmia ed alla vinificazione delle uve, che poi, poste in botti e sul treno, portava a casa a Savona. Però, io credo che per lui il ritorno a Frosinone fosse un ritorno alle origini, fosse un vero e proprio ritorno a “casa”.Secondo le stagioni, il primo periodo dell’anno scolastico lo trascorrevo a Frosinone. Mi rendevo conto che la massa dei ragazzi puzzava sia di sudore stagionato, sia di urina, per via dei vestiti non puliti. Altro problema fastidiosissimo per quella gioventù era quello delle pulci; quelle erano ovunque e la gente le scacciava come poteva.
Il confino di mio padre a Frosinone
Dato che mio padre non volle mai prendere la tessera del pane (la tessera del PNF), così come avevano fatto tutti e tutti lo avevano invitato a fare, lui coerentemente alle sue idee socialiste e repubblicane non aveva mai ceduto a queste sirene, nemmeno sotto la minaccia di perdere il lavoro e la minaccia, grazie al solito delatore, divenne un giorno realtà, Il momento in cui mio padre fu “collocato a riposo per scarso rendimento” fascista coinvolse tutti noi che ci vedemmo costretti a trasferirci a Frosinone, dove il regime invitò mio padre a recarsi. Se io avevo visto sempre Frosinone come la meta delle mie seconde vacanze, dovetti fare i conti con la consapevolezza che quella partenza mi avrebbe, non solo, cambiato le abitudini, le amicizie e le frequentazioni parentali, ma la mia stessa vita sarebbe stata totalmente diversa. Era per me un cambiamento epocale. La casa avita sarebbe divenuta la mia casa principale e una città, che avevo sempre visto come un sogno dal quale poi ci si sveglia, sarebbe stata la mia nuova città. E di questo avevo, in un certo senso paura. La mia vita era a Savona, ma il regime mi strappò da parenti ed amici e mi trapiantò, per il suo buon cuore, a Frosinone. Quando sul treno che mi portava a Roma e poi a Frosinone, io pensavo al mare che vedevo appena alzato tutte le mattine dalla finestra della mia camera, al porto ed in lontananza all’isolotto di Berteggi, pensavo alle nuotate, che non avrei più fatto, alle vogate ed alle regate con le barche, al porto vecchio con gli ultimi battelli a vela, a quello nuovo con i vapori di tutte le stazze, con genti provenienti da tutte le nazioni. Pensavo anche ai pescatori dai quali compravo con i miei risparmi di ragazzo il pesce per la frittura della sera che tanto mi piaceva e che non avrei più assaporato. Pensavo ai viaggi ed ai campeggi fatti sulle incantevoli colline e sui monti della Liguria. Mi dispiaceva lasciare tutti i miei amici di scuola, della ginnastica e del nuoto. Mi dispiaceva lasciare il mio mondo e che temevo di non rivedere più, come poi è stato. Ma a Frosinone cosa avrei trovato? Non era più la Frosinone dei sogni, ora era una realtà ostile a causa delle idee e dei comportamenti coerenti di mio padre. Non eravamo più considerati, a livello ufficiale, una famiglia importante, ma eravamo solo i figli di un antifascista e di un avversario. Ed io e mia sorella lo avvertivamo chiaramente e questo ci dava fastidio, ma mio padre restò sempre fermo nei suoi ideali. Giunsi a Frosinone con il magone nel cuore, e che cominciai a vedere anche io nel rovescio della medaglia. Il sogno era finito e cominciava una nuova realtà. Passato un po’ di tempo il senso di adattamento fece sparire il magone e mi trovai benissimo. Avevo quindici anni ed il bambino sognatore di Savona non c’era più. Ora c’era un ragazzo che aveva avuto le sue dure esperienze. Ma la voglia di rompere quella situazione impostami, contro la mia volontà. mi spingeva ad evadere da quella realtà che subivo. Le mie gite fuori città di giorno e anche al buio della notte, le passeggiate nei paesi e sui monti del circondario non erano altro che la manifestazione della mia insofferenza. Amavo Frosinone, ma volevo riprendermi la mia libertà. Non sopportavo la situazione di essere il figlio di un antifascista, con tutti i sacrifici che questo comportava. Così, quando venne il momento spiccai il volo dalla mia famiglia, lasciai Frosinone e tornai al nord dai miei cugini, malgrado la netta opposizione di mio padre.
La GIL tra Savona e Frosinone
Durante il regime fascista tutti i bambini che frequentavano la scuola, così pure i ragazzi, dovevano essere iscritti e frequentare l’Opera Nazionale Balilla, e in quelle occasioni dovevano assolutamente indossare la camicia nera d’ordinanza. Ma mio padre, per la fedeltà alle sue idee, mai mi permise di fare ciò. A Savona si riuscì ad evitarmi la camicia nera, grazie ad un amico inglese e pastore protestante, dottor James Lanford, che suggerì a mio padre la mia iscrizione ai “marinaretti”, come per motivazioni analoghe, aveva fatto lui per suo figlio Welfrid, mio amico. In questa associazione ci si vestiva alla marinara con la assoluta mancanza di camicia nera. Quando fummo costretti a trasferirci a Frosinone si ripose lo stesso problema: l’obbligo di indossare la camicia nera, senza l’escamotage dei marinaretti. Così dovetti per forza indossare il nero indumento tanto aborrito da mio padre. Come in quasi tutte le famiglie antifasciste si trovò un compromesso soddisfacente. Fermo restando il divieto assoluto di entrare in casa con la “divisa”, io mi dovevo togliere ogni paramento fascista prima di entrare in casa. Nell’androne del mio palazzo vi era un sottoscala che trasformai nel mio spogliatoio. Uscivo di casa normalmente vestito, mi recavo nel sottoscala e lì indossavo la divisa, poiché altrimenti non avrei potuto frequentare ne la scuola, ne le attività extrascolastiche, ne tanto meno quelle sportive. Rientrando a casa dopo quelle attività, per rispetto a mio padre ed alle sue e nostre idee, mi recavo nuovamente nel sottoscala e mi spogliavo e rivestivo con gli abiti “civili”. Non avevo altra scelta per salvaguardare la possibilità di stare comunque insieme agli altri ragazzi per frequentare la scuola e socializzare con loro, e nello stesso tempo rimanere fedele a quei principi così cari a mio padre. In seguito ho saputo che qualche cosa di simile accadeva in casa Marzi, così come a Trento in casa De Gasperi, in Sardegna in casa Cossiga e come in molte altre case di antifascisti italiani.
L’archivio segreto nascosto della casa di via Cavour
Era la fine dell’anno 1937. Io ero stanco di essere inquadrato, dagli insegnanti e dalla maggior parte dei compagni, eccetto gli amici, come il figlio di un antifascista con tutte le conseguenze del caso. Mio padre non voleva affatto sentire ragioni, ne dai familiari ne dai suoi pochissimi amici rimastigli. Perfino i parenti, anche se lontani, si erano piano piano defilati da noi, pensando a eventuali conseguenze. Nelle esercitazioni del sabato fascista e nelle celebrazioni pubbliche avrei dovuto mettere la camicia nera, ma mio padre era inflessibile. In casa quella “robaccia” non doveva assolutamente entrare. Io ero costretto così a uscire di casa vestito normalmente e poi nel sottoscala cambiarmi al volo e così aggregarmi agli altri. Lo stesso accadeva nel rientrare a casa, ma con abbigliamento inverso. Credevo che fossi il solo, e ciò mi pesava molto, ma ho scoperto in seguito che anche a casa Marzi a Frosinone capitava qualcosa di simile. Inoltre, Alcide De Gasperi ed il padre di Francesco Cossiga in modo analogo si comportarono con i figli. Non ne potevo più! E quando mia sorella Velia, più piccola di me di quattro anni, passando davanti al caffè che era in Piazza della Libertà, fu additata come la figlia di quel Ricciotti che avrebbero dovuto fucilare al posto di quello che era effigiato sul monumento, decisi che la misura era colma. Mi recai da mio padre e lo affrontai. Gli esposi tutto il peso di quella situazione che era divenuto insostenibile per tutti. Non volle sentire alcuna ragione. Non avrebbe mai tradito i suoi ideali e quelli della nostra famiglia. Dissi allora che me ne sarei andato via in Austria dai miei cugini materni. Perfino quella minaccia non lo fece smuovere dalle sue convinzioni. L’uniche due cose che mi disse furono: “Per vincere questa guerra, che il regime ci sta preparando e che presto arriverà, dobbiamo perderla. E tu non ne devi fare parte”; “Quando tu tornerai a casa e io non dovessi esserci più, allora ti debbo confidare un segreto”. Non capii, ed allora mio padre mi portò in soffitta. E quando si fermò davanti ad una parete rimasi confuso. “Dietro questa parete c’è un pezzo di storia italiana”, così esordì. E mi raccontò come suo nonno Domenico, alto funzionario della Stato Pontificio, ma patriota mazziniano da sempre, soprattutto durante la Repubblica Romana, aveva conservato ogni documento ed oggetto relativo alla sua attività cospirativa e a quella di Nicola Ricciotti. Solo allora compresi tutta la cura quasi maniacale per quella soffitta e il suo tetto sovrastante che mio padre aveva sempre avuto. E mi tornò alla mente quella volta che mio padre aveva fatto mettere a posto le tegole del tetto da un muratore detto Scivolone, un soprannome credo derivato dal modo in cui si muoveva sui tetti di tegole. Questi aveva una moglie, Angelina, ed un figlio di nome Cataldo. Ed in quella occasione si era portato anche un aiutante soprannominato Garibaldi. Ero ancora molto piccolo ed andavo alla scoperta della casa. Mi trovai in soffitta e vidi nel muro un’apertura fatta da poco e che successivamente fu subito richiusa. Sbirciai, dato che dal tetto filtrava la luce, ed infine decisi di entrare. Con mia grande sorpresa osservai che vi era un armadio con vetri assai appannati dal tempo con alcuni saji grigi da frate cercatore, alcuni bastoni particolari con nascosto dentro un pugnale piuttosto lungo ed un cassetto pieno di alcuni anelli con incisi particolari disegni. A fianco dell’armadio vi era una polverosissima scaffalatura con grandi faldoni pieni di carte con sopra scritto a mano “Direzione Generale di Polizia”. Più in là vi erano casse di legno con grosse borchie di ferro e piombo e su una di sopra vi era scritto “carteggio Ricciotti-Mazzini”, mentre su un’altra “carte private di Sua Eminenza”, seguito da uno stemma cardinalizio che non ricordo più. Ma le casse erano almeno una decina di varia dimensione. Sarei rimasto lì dentro chissà quanto tempo, con la mia fantasia di bambino, ma la voce di mio padre, che stava discutendo con Scivolone, mi convinse che era il caso di tornare di sotto. Conoscevo la volontà di mio padre che nessuno mai salisse in soffitta senza la sua presenza. E proprio quello che era contenuto nella soffitta era la vera preoccupazione di mio padre. Era necessario rispettare assolutamente la volontà di suo nonno Domenico affinché tutto il contenuto dell’archivio segreto fosse reso pubblico a cento anni dalla sua morte (10 marzo 1869 – 10 marzo 1969). Mio padre seppur richiesto, dato che in molti supponevano ed a ragione che in casa nostra vi fossero molti documenti di epoca risorgimentale, negò sempre a tutti la possibilità di ficcare il naso in quell’archivio. Così accadde anche a Guglielmo Luca Munno nel 1935, che mio padre non fece nemmeno entrare perché aveva l’aggravante di essere fascista. Ma in precedenza li aveva negati anche al nostro lontano parente Alessandro Fortuna. Per lui erano così importanti che, dopo l’allontanamento per motivi politici dal lavoro, erano quasi divenuti la sola ragione di vita. Ed in caso di mancanza di eredi allo scoccare dei cento anni egli aveva dato mandato ad un suo amico notaio per la divulgazione del materiale. Mi fece promettere di non dire mai a nessuno del contenuto della soffitta e dell’impegno di suo nonno. Non voleva assolutamente che io partissi per l’Austria. Ma lui era irremovibile e così lo fui anch’io. Malgrado mio padre io, pochi giorni dopo, lasciai Frosinone, quella casa e la soffitta con l’archivio di mio bisnonno. Come aveva previsto mio padre la guerra scoppiò e trascinò l’Italia nella rovina. E fu così che le bombe americane fecero piazza pulita di tutto l’archivio segreto, della cura che aveva avuto mio padre e di tutte le case.
Quadretti e personaggi della Frosinone che fu
Nel territorio non c’erano vaccherie ed il latte era quello di capra che i pastori (gli crapare) portavano per la città seguiti dal loro gregge. Mi ricordo di un fatto singolare. Eravamo arrivati da poco a Frosinone e mia madre aveva mandato la donna di servizio a comperare il latte. E quella si presentò in casa accompagnata dal capraio con una capretta che iniziò a mungere direttamente in cucina tra la sorpresa di mia madre. Dopo un primo momento di sconcerto la cosa finì in allegria. Allora mio padre decise che bisognava installare una stalla moderna per le mucche. Con un suo amico, un certo Ciamarra, che aveva una tenuta confinante con la nostra, si decise di inviare alcuni contadini per fare pratica in un allevamento vaccino, in una vaccheria in provincia di Pavia, di proprietà di un amico di mio padre. E così fu fatto. Quindi, si costruì la stalla a via della Mola Vecchia, si fecero arrivare delle mucche del tipo bruno alpino, che allora andavano per la maggiore, e le si affidarono alla custodia dei contadini tornati da Pavia. Rientrammo a Savona, ma iniziarono a giungere lettere da Frosinone, dal nostro amministratore (gli ministre) che di volta in volta ci annunziava la morte di una mucca. Al chè, mio padre preoccupato decise di tornare a Frosinone per comprendere cosa stava accadendo alla sue mucche, dato che vi aveva investito un discreto capitale. Io, approfittando delle vacanze di Pasqua, lo accompagnai. Ero un ragazzetto di sei o sette anni. Mio padre allora convocò l’amministratore ed i contadini ai quali spettava la gestione della stalla, e chiese a Cesare, il capo contadino: “A Ce’, ma che me fai morì tutte ‘ste vacche?”. E Cesare rispose: “Chille se morone pe conto loro!”. E mio padre non convinto chiese di nuovo a Cesare: “Ce’, ma tu je l’hai dato er beverone?”. E Cesare: “’Gnoro padrò, che ie me debbe struscià le sciosce pe da da beue alla uacche? Se uonne beue, se lo uanno a cercà!”. Questa era la situazione della stragrande maggioranza della popolazione contadina (gli uillane) degli anni venti. Ora si stenta perfino a credere che possano essere accaduti fatti simili, dato che la provincia di Frosinone è divenuta, per fortuna, una zona ricca, anche per gli allevamenti ed i caseifici.
Le Fiere
Altro avvenimento importante erano le fiere. Dalla campagna venivano i contadini calzanti le cioce e negli antichi costumi. Le donne con il busto che sosteneva i floridi seni e l’immancabile cesto sulla testa, il collo ornato con catene di corallo.
Le acquaiole
Altri personaggi locali erano le acquaiole, ovvero le donne che portavano l’acqua nelle case con le tipiche conche di rame, quelle fatte a clessidra. Ne ho viste moltissime che portavano due conche alla volta, una sull’altra, ed addirittura qualcuna che riusciva a portarne anche tre: una di queste era Memma, la figlia di un nostro ex contadino chiamato Peppe li buscio.
Personaggi particolari
Uno era Sozzio, un cieco che vendeva giornali, accompagnato dalla moglie che lo teneva sotto il braccio e lo aiutava a portare i giornali. Poverini, mi sembravano i rappresentanti della miseria. Ho ancora nelle orecchie il grido del vecchio Sozzio: “Popolo di Roma! Messaggero!”. C’erano poi i battitori, parenti poveri dei “pazzarielli” napoletani. Erano personaggi piuttosto ridicoli. Negli anni venti del XX secolo, mi ricordo Carachè, così chiamato per la sua maniera strana di parlare, e negli anni trenta Mezza Recchia, altro personaggio della stessa specie.C’era poi li ‘drauliche, il fontaniere che veniva chiamato Ciocca de nicheletta, perché fornito di un cranio simile a quello di Vittorio Emanuele III così effigiato sulle monete da quattro soldi, fatte di nichel.
Altri personaggi frusinati
Quando, sotto i piloni era stato fatto il gabinetto pubblico, lo scopino Rizieri era stato nominato guardiano. Un giorno che ero andato a farmi tagliare i capelli da Papetti, il barbiere che aveva il negozio vicino a piazza Garibaldi, vediamo passare Rizieri. Papetti, che era anche una linguaccia burlona, disse a certi suoi amici che stazionavano stabilmente nel suo negozio per trascorrere con l’amico il tempo, di andare a gridargli dietro “a Riziè c’è carta?” La battuta piacque a molti e, così, il povero Rizieri se la trovò appiccicata e se la portò appresso per molto tempo. C’era una volta un certo Aurelio, impiegato del comune, che aveva una folta chioma e che lui pettinava in continuazione e con estrema cura anche per la strada. La gente che lo osservava lo apostrofava continuamente con questa battuta: “appizza Aurè”. Sebbene Aurelio si arrabbiasse moltissimo alla presa in giro, lui continuò comunque a pettinarsi anche per la strada. Una nostra conoscente, la signora Bragaglia, era stata in viaggio al nord e commentava l’avvenimento con mia madre. Le fu quindi chiesto cosa le fosse piaciuto di più, e lei rispose che le erano piaciuti i negozi, perché quando uno entrava, lì al nord, il personale subito salutava gentilmente e chiedeva con garbo cosa uno desiderasse. “Qui, invece, si sente sempre il medesimo ritornello: Cù uò?” Altri due personaggi che affiorano dai ricordi Marietta Panzanera o Trippanera, che era una carbonaia e che a tempo perso, per arrotondare le magre entrate portava sulla testa lunghe tavole di legno piene di pagnotte che consegnava. C’era anche un certo vecchietto che era stato soprannominato “Puzzulicchio”, perchè era molto piccolo.
Un episodio
Mia zia materna aveva molte proprietà agricole ad Altare (Savona), che si trova al di la del Colle di Cadibona, ed io avevo avuto la possibilità anche di conoscere la vita dei contadini a cavallo tra Liguria e Piemonte. Pur essendo povera gente abitava in case modeste, ma pulite e ben tenute, e le donne dei contadini liguri sapevano tutte cucinare, ed erano brave a cucire con cura e fare il bucato. Invece molte delle donne dei contadini di Frosinone non sapevano cucire. Mobili in quelle case contadine, sempre a Frosinone, ve ne erano pochi, c’era un tavolo, qualche sedia, una cassapanca e un grande letto dove la notte dormiva tutta la famiglia. Piatti ce ne erano pochissimi e tutti mangiavano nella scifa (unico grosso recipiente di legno, un piatto per tutti!), con forchette con denti divaricati per poter afferrare bocconi più grandi. Il corredo matrimoniale delle donne era costituito quasi esclusivamente da coralli, per le catene e gli orecchini e da recipienti di rame, quello realizzato ancora dagli zingari.
La messa
Mia madre andava la domenica alla messa delle otto a Santa Maria e dato che era estate portava un abito a mezze maniche come era usato dalle signore la domenica a Savona per recarsi in chiesa. Invece a Santa Maria le capitò che il celebrante per tre volte non le diede la comunione, saltandola, e passando oltre. Mia madre dopo la messa si recò in sacrestia e chiese spiegazioni di quel comportamento assurdo a don Filippo, il quale la redarguì per l’abito, a suo giudizio, indecente dato che le scopriva gli avambracci. Cosa che a Savona era un fatto assolutamente normale. Io, diversamente da mia madre, mi recavo alla messa alle ore nove a San Benedetto. Ma quella era la messa dei contadini. Era un finimondo: donne con bambini schiamazzanti, con cesti sopra la testa e cesti alle braccia che erano chiamati gli manicute. L’atmosfera era pesante, l’odore era cattivo e vi era puzza di sudore ad ogni angolo (si era ad agosto!). Preferivo quella messa, perché mi permetteva di essere libero dopo. Abituato a Savona, Celle Ligure ed Altare, mi colpì molto l’abbigliamento tradizionale dei contadini di Frosinone ed il forte odore di quelle messe.
Gli “bardasce” dello scivolo di via del Campo
L’inizio di via del campo era una strada costellata da case in discesa, per due o trecento metri fino all’inizio della strada pianeggiante, ritagliata dai costoni della prebenda. E proprio all’inizio una frana aveva messo a nudo la sottostante tufella di arenaria, creando così uno scivolo naturale sul quale tutti gli bardasce della zona, vestiti di sole magliette stracciate e senza calzoni o mutande, si divertivano a scivolare strisciando col sedere sulla tufella. Forse avevano i glutei foderati di cemento, altrimenti avrebbero visto le stelle dal dolore. Uno dei bardasce dello scivolo era un tipo che chiamavano pile rusce, e che io avevo tradotto come pellirossa. Era rosso di capelli e la carnagione era rossastra, tutta coperta di lentiggini. Quando mi vedeva, per senso di sfida, aumentava le sue scivolate acrobatiche, per mettermi in soggezione. Io me ne ero accorto e ne risentivo. Un giorno che mi ero presentato con una pistola a tappi, che per altro non mi piaceva, mi venne vicino e mi disse con atteggiamento baldanzoso “che me la fai regge”, col sicuro scopo di sparire e portarmela via. Gli risposi “no, perché te la regalo”, assumendo in questo un atteggiamento di sicurezza e di accoglienza. Lui rimase stordito e la sua ostilità divento rispetto nei miei confronti. Il giorno seguente volle regalarmi uno “strummole”, ovvero una trottola da strada, che io non accettai perché, e glielo dissi con benevolenza, non ero capace di giocare per strada con quell’aggeggio. E così l’ostilità sua e degli altri bardasce divenne simpatia ed ammirazione.
Un personaggio da romanzo russo
C’era un certo tipo, che io non ho conosciuto, ma del quale io ho sentito insistentemente parlare: si chiamava Giggi Pesce o Pesci, ed era un grosso proprietario terriero, e quando si trovava dai suoi contadini usava fare forti, maleodoranti e sconce flatulenze e pretendeva che i suoi dipendenti si levassero il cappello e che proferissero questa frase: Colla bona salute sor Gi’!”. Inaudito, ma quella era la mentalità dell’epoca. Oggi è tutto diverso, grazie alla diffusa scolarizzazione, l’autostrada, l’industrializzazione e la televisione, tanto che le moderne generazioni non hanno più nemmeno il più vago ricordo di ciò che è realmente stato. Invece, è necessario ricordare anche questi aspetti per capire che la civiltà ed il benessere sono conquiste graduali e progressive e che bisogna incoraggiare senza dimenticare il passato, e avere grande rispetto per quella povera gente al pari degli attuali immigrati, perché anche noi siamo stati miseri e migranti. Anche Ignazio Silone racconta vicende simili a queste, per miseria, ignoranza e povertà, nei suoi libri (Fontamara e Pane e vino), così parimenti ha fatto Carlo Levi (Cristo si è fermato ad Eboli).
Il cinese a Frosinone
I cinesi sulle spiagge, come anche a Savona, si può dire, che a quell’epoca erano di casa, e vendevano le cravatte ad una lira (anzi a una “lila”), o a due lire, ed anche ombrellini di carta di riso stampigliata, e cappelli a cono, sempre di fibre vegetali per ripararsi dal sole, fazzoletti di seta, e paccottiglia varia, quali anellini, catenine, medagliette ed altro. Eravamo, ormai, oltre la metà di settembre e la stagione balneare era terminata, ma ad uno di questi cinesi venne la non felice idea di spingersi fino a Frosinone. Lo trovai proprio sotto le carceri (come allora si chiamava il piazzale dietro la prefettura). Il poverino era tutto circondato da una torma di monelli, capeggiati da un certo Verelli (o Varelli), un ragazzo sulla ventina, che da piccolo aveva avuto qualche malattia che lo aveva reso un po’ toccato nella parola e nei movimenti. Quei monelli cominciarono a spintonare il malcapitato cinese, facendogli cadere la sua valigia che si aprì e dalla quale fuoriuscirono tutte le poche mercanzie, che erano in fondo il suo misero capitale. Io ero ancora un bambino, ma mi misi a gridare contro quei monelli di piantarla e di non importunare il cinese, mentre i passanti o restavano indifferenti, oppure, compiaciuti di quanto stavano facendo quei ragazzacci, guardavano divertiti senza intervenire. Allora chiamai una guardia che, con mia grande sorpresa, mi disse: “lassali fa, so’ bardasce!”.
La Camorra
Da poco Frosinone era divenuta capoluogo di provincia e Caserta non era a sua volta più capoluogo per causa della camorra. Gli uffici amministrativi di Frosinone si erano così riempiti di personale proveniente da Caserta. Un giorno accompagnai mio padre a ritirare in un ufficio alcuni documenti che erano già pronti. L’impegato che li consegnò, al grazie detto da mio padre, rispose con arroganza “a razia a fa a Maronna”. Io non capii e così domandai spiegazioni a mio padre che mi tradusse la risposta così: la grazia la fa la Madonna. Ed io risposi che mi sembrava un uomo molto religioso, ma mio padre mi interruppe e mi disse che quel personaggio voleva fare la “cresta” e, quindi, o era un camorrista o era semplicemente un bischero che si atteggiava a tale. Poi continuò mio padre: “Tieni presente che la camorra ed altre associazioni similari sono il cancro del Mezzogiorno E che a Frosinone, per fortuna, non c’è mai stata la camorra”.
La Frosinone balneare
Prima della guerra, i luoghi comuni di balneazione estiva in città erano lo Schioppo, la Mola Vecchia, la Mola di Papetti tutte sul Cosa, e poco fuori città c’era la Tomacella (proprietà dei Tomacelli) sul fiume Sacco. Ragazzi e giovanotti facevano il bagno completamente nudi in un acqua dal colore bordolese. Delle due mole la prima era ai piedi della città, mentre la seconda era situata verso la stazione. Io frequentavo gli schioppe per poter fare i tuffi e qualche bracciata, poiché ero uno dei pochi che sapeva nuotare. Avendo ben presente la limpidezza dei miei bagni nel fiume Bormida ad Altare, mi sentivo un po’ a disagio ad immergermi nelle acque torbide del Cosa e così preferivo la Mola di Papetti, anche se più lontana, perché aveva un acqua meno torbida. Alla Tomacella andavo di rado a causa della lontananza, ma anche lì l’acqua era torbida. Poi c’era Ferentino, dove le acque, sia delle terme Pompeo, sia dei piccoli laghetti alla falde del monte Radicino, erano ottime e pulite, anche se sulfuree. E tutte queste acque avevano sulla pelle una azione effervescente. Alle terme Pompeo le acque erano di colore lattiginoso, mentre quelle dei laghetti erano di un azzurro intenso. Ma poiché io mi spostavo a piedi rarissimamente mi portavo a Ferentino. Le terme Pompeo, invece, rappresentavano per le ragazze la sola possibilità di balneazione.
Il camminatore
Camminare è sempre stata una mia passione. Ma oltre lo “struscio”, che si faceva in forma ridotta da sotto le Carceri al monumento a Turriziani, o in forma più ampia da piazza Garibaldi a S.Antonio, a Frosinone non si andava oltre. E io non riuscivo a trovare compagni che mi seguissero oltre il palazzo della Provincia, dopo il tramonto, perché lì finiva l’illuminazione, sulla strada della stazione o addirittura alla stazione stessa. D’inverno non ne parliamo. I ragazzi bene stavano rintanati in casa o a riempire i bar per “accaziare” con gli amici. Io invece, dato che sono una persona particolare, me ne andavo con il freddo e con la pioggia e senza le luci per le strade, per poter passeggiare verso la campagna, riflettendo dentro me ed ammirando quello che stava fuori di me. In una di queste passeggiate notturne incontrai un contadino che mi raccontò degli “spirite”, della “pantasma” e dei “fraticeglie”. Ma la passeggiata in città era solo un esercizio fisico, che affiancavo al pugilato, dato che a Frosinone vi era solo quella palestra, che era situata al primo piano sopra un garage, che si trovava all’inizio dell’alberata uscendo da Frosinone. Ma il mio desiderio correva ai dintorni. Monte Cacume, con il suo cono sormontato dall’alta croce a tralicci, era per me una calamita e mi son dato da fare per trovare qualche compagno che mi seguisse nell’avventura. Riuscii a convincere Perdicaro, il figlio del preside dell’istituto tecnico per geometri. Era un tipo simpaticissimo e sportivo, siciliano d’origine, ma proveniva da Parma dove il padre era stato anche lì preside. E insieme abbiamo convinto altri a seguirci e siamo stati fortunati, perché la nostra intenzione giunse ad un altro ragazzo, un certo Lala, anche lui siciliano d’origine, che abitava a Patrica e tutte le mattine con la corriera veniva a Frosinone per andare a scuola. Gli erano morti il padre e la madre quando era piccolo, e lo zio materno, il dottor Graculici, decise di non sposarsi ed adottò lui e tutta la sua famiglia, come zio padrino, secondo una antica bellissima usanza meridionale. Il dottor Graculici era proprietario di un rifugio situato proprio sotto il cono di monte Cacume. Quando seppe dal nipote della nostra intenzione, ci mise il suo rifugio a nostra disposizione con grande gentilezza. Erano le vacanze di Pasqua. Io e Perdicaro partimmo a piedi prestissimo da Frosinone, andammo a Patrica, dove lì un ragazzo come noi, su incarico del dottor Graculici, ci condusse al rifugio. Passammo tutta la giornata ad “esplorare” i dintorni e salire verso la cima e arrampicarci sui tralicci della croce. Quella croce era stata voluta da papa Leone XIII che era di Carpineto, che si trova sull’altro versante dei Lepini. La notte la passammo nel rifugio, ma all’alba fummo svegliati dai “crapare”, che ci offrirono il latte appena munto. Dopo questa singolare colazione facemmo lunghe passeggiate sulle pendici del monte ed infine ci incamminammo sulla via del ritorno. Organizzai una seconda escursione tra Frosinone, Ferentino, Fumone ed Alatri. Eravamo io, Perdicaro e D’Ovidio. Partimmo prestissimo da casa, e con una veloce camminata alla bersagliera arrivammo a Ferentino, e dopo una breve passeggiata per la città, prendemmo la via per Fumone. Giunti sotto il paese facemmo la più grande sciocchezza che possa fare un camminatore. C’era un abbeveratoio con acqua pulita e freddissima e noi, ingenui, ci togliemmo le scarpe ed immergemmo i piedi fumanti in quella frescura. Mal ce ne incolse. Quando levammo i piedi dall’acqua li trovammo enormemente gonfi, tanto da non entrare nelle scarpe. Dovemmo fare una lunga sosta e poi zoppicando riprendemmo il cammino. Ma le sorprese non erano finite. Infatti il castello era chiuso. E con ancora i piedi doloranti prendemmo la strada per Alatri. E fu un purgatorio, ma si doveva assolutamente camminare. Dopo la visita all’acropoli alatrese, si prese la strada per il ritorno a Frosinone. Fu, come si può immaginare, una marcia allucinante, come i soldati napoleonici verso la Beresina. Nell’ultimo tratto D’Ovidio era caduto esausto ed ho dovuto prenderlo in spalla fino a casa. Ho fatto anche altre gite come quella a Veroli ed a Casamari, a Supino, a Morolo, ad Anagni ed a Ceccano dove siamo stati accolti a sassate, perché i ceccanesi ce l’avevano con i ragazzi di Frosinone, dato che li accusavano di dare fastidio alle loro ragazze e anche di prendere in giro i locali per via del manicomio ceccanese.
La scuola
Quando mio padre fu costretto per motivi politici, dato che era un antifascista e che non si nascondeva, a ritirarsi a Frosinone, io frequentai le locali scuole. L’orario scolastico era continuato, dalle otto alle quattordici. Vi era una interruzione alle dieci e mezza, per fare colazione. Tempo permettendo si usciva dalla scuola e si andava fuori a consumare la merenda. Io mi limitavo a mangiare un panino con la marmellata, perché ero abituato a fare a casa una abbondante colazione, mentre gli altri mangiavano pagnotte caserecce con qualche cosa dentro. Io, passeggiando un giorno con il mio caro amico Pascucci, fui affiancato dal figlio del Provveditore agli Studi, del quale non ricordo il nome. Era un bravo ragazzo. Un tipo che aveva le mani molto forti, malgrado fosse mingherlino, e aveva braccia esili. La sua forza era solo nelle mani dovute ai forti tendini. Ma lui teneva molto a questa sua qualità e voleva darne sempre una dimostrazione. Io, invece, data la mia frequentazione savonese di piscina e di ginnastica artistica, e frusinate di pugilato, godevo fama di forzuto e per questo avevo la considerazione dei compagni. E costui, invece, mi chiedeva sempre consigli su come potesse divenire più forte, mostrandomi in continuazione la forza delle sue mani. Mentre, per l’ennesima volta, mi voleva dare prova della sua manuale qualità, mi trovai davanti Pescosolido, un bravo ragazzo dell’omonimo paese, che in quel momento stava addentando un grosso boccone da una altrettanto enorme pagnottella. A quella vista, per togliermi di torno il mingherlino, lo invitai, per scherzare, a dare dimostrazione delle sue qualità andando a prendere per il collo il povero Pescosolido. Non lo avessi mai detto, con mia sorpresa, quello parte in tromba e afferra per il collo Pescosolido, che, mezzo soffocato dagli enormi bocconi, con i quali mangiava avidamente la sua merenda, e dalla stretta ferrea della mano del mingherlino, non riusciva tutto sconvolto ne a deglutire ne ad urlare. La situazione nella sua tragicità era divenuta anche di una sorprendente comicità. Io ero mezzo paralizzato sia per quella assurda battuta che si era trasformata in realtà e che si manifestava con una risata incontrollabile, sia perché il mingherlino non aveva nessuna intenzione di mollare la sua presa, proprio per dimostrare a tutti la sua forza. Per fortuna Pascucci ed altri con molta fatica riuscirono a separarli e tra lo schiamazzo generale i due furono portati dal preside. Il quale, visto che si trattava del figlio del provveditore se la prese con il povero Pescosolido che invece era la vittima. E lui per giustificarsi cominciò a gridare: “che lo possino ammazzallo, chiglie me voleva accide”. Anche oggi, quando mi ritorna in mente quell’evento, non posso fare a meno di ridere ancora.
Un fatto di sangue
Venendo a Frosinone, mia madre, dopo un primo smarrimento, si era molto affezionata alle persone ed alla città. Era però turbata dalla maniera di parlare della gente, che anche quando colloquiavano sembrava che gridassero o litigassero, agitandosi con gesti scomposti. Era nauseata da certi improperi, spesso pronunziati anche dalle donne del popolo. Per esempio: “che te pozzine accide”, e spesso con le aggiunte “Ti e padreto”, “ti e quella p… de mammeta”; “che te pozzine acciaccatte”, “che te pozzine scannatte”, “va morì ammazzate”. E temeva che questi epiteti fossero usati da gente facile al coltello. Invece, fortunatamente fattacci di sangue a Frosinone non ne accadevano. Una sola eccezione mi ricordo, un dramma della gelosia. Un marito uccise la moglie che lo tradiva, ma non erano di Frosinone. Erano due gelatai veneti, che gestivano un caffè nelle vicinanze del cinema Moderno (cosi mi pare di ricordare che si chiamasse), che si trovava davanti ai giardinetti. Eravamo negli anni trenta.
Un fatto positivo
Le case avevano una sola serratura, molto semplice. Non esisteva quasi quella di sicurezza. Di furti nella case non se ne ricordavano quasi, anche se vi era stata sicuramente qualche eccezione, sempre ad opera di forestieri (zingari o napoletani). Però il furto era sempre praticato solamente nelle campagne ad opera dei “crapare”, genti forestiere che per la sopravvivenza del gregge non conoscevano alcun limite o confine di proprietà. Era una categoria odiatissima dai contadini. Ma questo è sempre stato un fatto di classe, tra nomadi e stanziali, storie che il cinema americano ci ha propinato per anni. Esisteva in oltre, un’altra categoria di “predatori” campestri, bande di “bardasce”, che andavano a far razzia nei campi, soprattutto quando i frutti erano maturi. Ma più che l’entità del furto, preoccupavano i danni che lasciavano dietro a loro. Mi ricordo di un ragazzo chiamato “Infrignate”, che godeva fama di piccolo boss.
“Gli spirite”
Nelle mie lunghe passeggiate una sera passando nella zone delle Fontanelle, località così chiamata per l’esistenza di un antico abbeveratoio trasformato in un lavatoio pubblico, mi fermò un contadino per avvertirmi di non passare più di sera da quelle parti, perché lì c’erano “gli spirite”. Il contadino mi parlò così: “ce stanno gli spirite, anzi so’ trene: gli spirite ch’è gli marite, la pantasma ch’è la femmena, e gli fraticeglie che so’ la creatura, tutte cattiue”. Io di rimando: “e che cosa uno deve fare?”. E il contadino: “E tì deui strillà forte per tre uorte appicciate diaule, e chiglie spariscene, perché se ne uanne alla casa de lore, abbruscià all’inferne”. Preso così alla sprovvista, rimasi perplesso e non nascondo, impaurito, data la mia giovanissima età. Ma cammin facendo trovai il discorso del contadino, comicissimo per la rappresentazione della certo non sacra famiglia, Tornai a casa ridendo e quando ancora ci ripenso, dopo oltre sett’anni, sorrido divertito.
Gli spirite II
Una sera avevo fruito, per impellente necessità, di quel vespasiano di lamiera posizionato nelle vicinanze della curva Zallocco, all’inizio della strada che portava agli uffici comunali, proprio sotto il parapetto dei giardinetti. I monelli salivano sul tetto del gabbiotto metallico e si divertivano a ballare il saltarello, quando vedevano gli uomini che si recavano per l’uso, e così facevano un gran baccano, provocando un rumore infernale. Era il crepuscolo e uscendo dal vespasiano, non visto dai monelli, notai le gambe di un ragazzino, allora salii su un pietrone lì attaccato ed afferrai con grande energia le caviglie del malcapitato. Al sentirsi preso senza una visibile ragione il monello emise un urlo raccapricciante, saltò sul tetto in un istante gridando “ce so gli spirite”, e subito fuggì seguito dalla ciurmaglia dei suoi “compari”, gridando ancora come un forsennato. Il fatto corse allora di bocca in bocca e le donnette confabularono tra loro, diffondendo la panzana della presenza di fantasmi in quel vespasiano, così che per molti giorni pochissimi furono i coraggiosi che vollero fruire di quel pubblico servizio. Forse molti pensarono come scrisse De Filippo, “non è vero, ma ci credo”.
I trenini e le corriere
A Frosinone c’erano due trenini. Il primo era quello che proveniva da Alatri, in coincidenza con l’altro che giungeva da Roma. Questo arrivava sotto il distretto militare, passando nel tunnel vicino l’alberata, ma presto cessò di funzionare. C’era poi il trenino che collegava il centro con lo scalo ferroviario. Anche questo, però, fu tolto. Faceva capolinea sotto le carceri. Ho ancora nelle orecchie quel suo caratteristico fischio che lanciava al suo passaggio. C’erano poi le corriere che collegavano la città ai paesi vicini ed anche loro facevano capolinea sempre sotto le carceri. Ed infine c’era un tizio chiamato Manasca, che si era autonominato facchino, ma ricordo che anziché portare i bagagli si limitava a cantare alcuni stornelli del sor Capanna, in un dialetto romanesco tipicamente ciociaro. Esattamente questi: “magna chiu na chiavichetta de la ggente poveretta”; “la scolabbrodo sta sempre appesa ar muro come ‘n chido”; “la ricevuta te serve propio quanno l’hai perduta”; “ner tiratore se senteno le sorghe da discore”. Questo era un tipo inconfondibile.
Altri personaggi
C’erano altri personaggi tipici, come Ciocca de Nicheletta, il fontaniere, così chiamato per la sua forma del suo cranio e per il quale lui aveva riscontrato una notevole somiglianza con quello del re e che era ritratto sui ventini di nichel da quattro soldi e per questo motivo lui andava fiero della sua “regale” capoccia. Tanto che il cugino Antonio lo stagnaro, formidabile “cazziatore” o “cazzeggiatore”, che passava la sua giornata sdraiato su un muretto a prendere in giro la gente, così lo aveva definito. C’erano poi le canzoniere, le donne dei detenuti, le quali per poter parlare con i propri mariti reclusi nelle carceri, comunicavano dall’esterno sotto le finestre sbarrate con una serie di nenie e litanie, e sempre cantando rispondevano loro i carcerati. Era una usanza umanitaria del tempo dello stato pontificio, che era sopravvissuta, che cercava di non far perdere il senso della famiglia ai galeotti ed ai loro familiari.
La praticana
Era costei una povera donnetta originaria di Patrica, per cui era chiamata praticana. Faceva la lavandaia ed aveva un mare di figli, che erano mezzi selvaggi. Questa povera donna litigava con tutti e per qualsiasi motivo, Aveva un marito che si chiamava Gennarino, un napoletano, che faceva l’autista ed, al contrario della sua numerosissima famiglia coperta di stracci, lui andava sempre in ghingheri al modo dei cosiddetti “paini”, e la gente lo chiamava il “principino”.
udichicchia
Cudichicchia era un omone grande e grosso, oltre una quintalata, e che era stato così soprannominato per le sue pantagrueliche scorpacciate di fagioli con le cotiche. Aveva una numerosa famiglia composta dalla moglie ed un numero imprecisato di figlie. Nelle sere d’estate, il piacere suo era quello di godersi la frescura serale seduto sopra un muretto, che proteggeva la strada da un salto di almeno tre metri. Molti lo avevano consigliato di non sedersi lì dopo cena, dato che era abituato anche ad innaffiare il suo pasto serale con una abbondante libagione. Ma continuò imperterrito nelle sue sedute ad alto rischio, dato che lui affermava di essere protetto dal suo angelo custode e per il quale aveva una grandissima devozione. E ne aveva ben donde, infatti una mattina ce lo trovammo tutto impecettato, dato che si era addormentato mezzo brillo su quel muretto e così era caduto a schiena indietro, capovolgendosi del tutto, senza gravi danni se non qualche livido e graffio. Lui attribuì subito il “miracolo” all’intervento del suo angelo protettore. Nessuno gli credette per davvero, dato che la cosa risultava essere quasi incredibile. Ma il fatto accadde ben altre due volte. La pessima abitudine di stazionare dopo cena sul muretto al fresco estivo era per lui un godimento irrinunciabile e, grazie al suo protettore celeste, nemmeno troppo pericoloso.
Culacchione
Io mi ricordo che in Frosinone c’era un certo Colasanti, commerciante in pollame, che aveva la sua attività vicino alla curva Zallocco. Quest’uomo era grande e grosso, più o meno come Cudichicchia, ma aveva in più uno spropositato fondo schiena, che gli aveva fatto meritare il soprannome di Culacchione.
Alcuni miei amici frusinati
La mia casa di Frosinone era divenuta il ritrovo dei miei amici. Si veniva per studiare, per discutere liberamente, dato che altrove era impossibile, e per fantasticare insieme. Tra questi cari amici ricordo con affetto Gerardo Sica, che divenne farmacista e che morì in un incidente di macchina; Pascucci il ragazzone che si trasferì a Roma e divenne notaio. Alberico De Bernardis che fu veterinario. E molti altri ancora tra i quali un certo Spaziani che abitava vicino allo scalo ferroviario, che però veniva saltuariamente a casa data la lontananza. Con lui poi mi ritrovai durante la guerra prigioniero degli inglesi in Egitto ed in circostanze del tutto eccezionali. Infatti, dopo l’8 settembre 1943, la fuga del re e del governo a Pescara e la rocambolesca evasione di Mussolini dal Gran Sasso, con l’aiuto dei tedeschi, la creazione della R.S.I. a Salò, in tutto l’esercito italiano ci fu uno sbandamento spaventoso. Perfino nei campi di prigionia inglesi in Egitto, nei pressi Saqqara, succedettero cose da pazzi, dovute all’immensa impreparazione politica ed alle notizie che giungevano molto confuse dall’Italia. Si confrontarono subito tre posizioni ideologicamente contrapposte, la cui consistenza politica era basata su approssimazioni che poco avevano a che vedere con la realtà: fascisti, comunisti e badogliani. La massa sbandata si trova egualmente distribuita nei tre campi, secondo suggestioni e soggezioni all’interno dei vari campi. Io, per convinzione personale, culturale e tradizione familiare, non ero ne potevo essere fascista, comunista ne tanto meno badogliano o monarchico che dir si voglia. Fui, quindi denunziato alle autorità inglesi, responsabili dei campi, in quanto mi ero rifiutato di collaborare con loro senza prima aver ricevuto un ordine delle autorità militari italiane. Per questo motivo fu trasferito nel campo di punizione, dove erano reclusi i comunisti greci dell’E.T.A., i nazisti arrabbiati e che nella loro parte di campo avevano innalzato una statua ad una specie di dea, forse la stessa Germania e sul piazzale si esibivano in cerimonie pagane, e poi anche i fascisti e tutti quelli che si rifiutarono di collaborare. Il campo, come tutti i campi, era diviso in gabbie di circa trecento persone e i prigionieri erano divisi per tende. I fascisti spadroneggiavano nella parte italiana del campo. Fu proprio lì che con sorpresa mi ritrovai di fronte il mio amico Spaziani di Frosinone scalo. Ci chiarimmo subito i rispettivi motivi che ci avevano fatto finire lì. Lui mi spiegò che era con coerenza fascista in quanto credeva alla dignità ed all’onore della patria, mentre io spiegai a lui la mia netta convinzione antifascista, che non lo sorprese conoscendo le idee della mia famiglia. Spaziani mi disse di stare molto attento e di non dire a nessuno il mio pensiero, dato che la gabbia era comandata da alcuni fanatici fascisti, mentre la maggioranza dei ragazzi la pensavano come lui. Anzi mi invitò a trascorrere quella mia prima notte al campo nella sua tenda, dato che c’era un posto libero, ma soprattutto mi invitò a non parlare troppo e a non far capire la nostra vecchia amicizia. Fui comunque sottoposto ad un processo sommario dai capetti fascisti. In quella tornata eravamo tre ad essere sottoposti a quella farsa. Io, antifascista e non comunista, un maresciallo dei carabinieri monarchico ed un sergente maggiore che era un voltagabbana. Il maresciallo mantenne fermo il suo convincimento e fu massacrato sul posto fino a che morì. Il sergente si prostrò a terra e si dichiaro da sempre fedele al fascismo, fu punito con una buona dose di “legnate”, ma fu lasciato stare. Infine toccò a me, dissi con forza la mia in difesa della patria ma non del fascismo. Non potei terminare il mio intervento che mi saltarono addosso caricandomi di botte. In tutta quella confusione non so come mi ritrovai verso l’uscita della tenda. A quel punto potei rifugiarmi nella tenda di Spaziani, come lui mi aveva invitato a fare in caso di pericolo. Nessuno mi disse nulla e nessuno di quella tenda mi denunziò, forse per l’autorevolezza del mio amico tra loro. Il mattino seguente fui trasferito dal comando inglese in un campo di prigionieri antifascisti. Grazie agli utili consigli del mio amico Spaziani riuscii a salvarmi.
I bombardamenti, i fuggitivi dalle carceri e la distruzione delle case avite
Quando ero in guerra, anzi già in prigionia, un bombardamento alleato sulla città colpì le carceri, che sorgevano dietro il palazzo della prefettura, a pochissima distanza dalle nostre case di via Cavour. Molti soldati italiani, che erano stati lì rinchiusi dai tedeschi, riuscirono a fuggire. Mia sorella Velia li vide che si nascondevano nei pressi delle nostre case, perché non dovevano farsi vedere in giro nei loro abbigliamenti. E prima che se ne accorgessero i tedeschi, li fece entrare in casa. Mia madre che aveva un baule carico di vestiti di famiglia dimessi li diede a questi ragazzi, con la collaborazione anche di alcuni vicini, che a loro volta li rifornirono di altro vestiario. Così tutti furono sistemati e con l’aiuto della fortuna poterono allontanarsi con maggiore tranquillità. Mia sorella, visto che la situazione precipitava e che i bombardamenti erano sempre più insistenti su Frosinone, era andata a cercare una casa a Fiuggi, dove svolgeva nel locale ospedale il compito di infermiera volontaria, con qualche valigia e, nel caso fossi tornato, un vestito ed una valigetta per il cambio con alcuni miei effetti personali. Mio padre invece non voleva affatto muoversi dalle case di Frosinone, in quanto si riteneva il custode dell’archivio di famiglia, che conteneva anche un archivio particolare segreto di suo nonno Domenico, patriota e magistrato in epoca risorgimentale. Questo archivio segreto conteneva tutta una serie di documenti che riguardavano le attività patriottiche e la trafila personale di Nicola Ricciotti, di mio bisnonno Domenico e di tutti suoi familiari. E per questo motivo mio padre non ha mai lasciato le case di via Cavour.I bombardamenti proseguirono sempre più intensi su tutta Frosinone e sul suo circondario, fino a quando le bombe caddero anche sulle case. Mio padre e mia madre si salvarono per miracolo, uscendo quasi indenni dalle macerie. Ma tutto era una immensa rovina. Nulla si era salvato. Dopo diverse traversie, riuscirono a portarsi a Fiuggi da mia sorella, che li aspettava trepidante in quella casa che aveva preso gia da qualche tempo.Io ero già prigioniero degli inglesi in Egitto, a seguito della battaglia di El Alamein (23 ottobre – 6 novembre 1942), e da allora non avevo più avuto notizie dai miei e loro da me. Quando verso la fine del 1944 ricevetti, attraverso l’ufficio vaticano per i prigionieri di guerra, la seguente comunicazione dai miei genitori, anzi da mia madre: “casa e tutto il resto è distrutto da bombardamento, ma noi e monumento siamo salvi”.
La Santissima Trinità
A Frosinone avevo sempre visto passare, con ogni mezzo, moltissima gente diretta a Vallepietra alla Santissima (Trinità). Questa gente soleva nel viaggio cantare una breve canto: Viva! Viva! Sempre viva la Santissima Trinità!”. E anch’io, appena tornato fortunosamente dalla guerra e dalla prigionia nei campi inglesi dell’Egitto, compii quel viaggio. In questo ricordai un fatto tra la cronaca ed il miracoloso, che era accaduto ad un contadino, nostro dipendente di Frosinone, Cesare, che io ho conosciuto, e che fu allontanato da mio padre per il suo carattere facinoroso. Questo, in un momento di follia lucida, si era recato a Vallepietra, ed imbracciato un fucile, aveva sparato verso la sacra immagine. Il fucile si era bloccato e gli era esploso in mano. Quasi a memento dell’oltraggio pensato contro la SS. Trinità, la sua mano fu deturpata e gli rimasero solo tre dita, ad indicare forse la Trinità.
Lo sbruffone, anzi uno come tanti (purtroppo!)
Tornato dalla prigionia, mi ero incontrato con un mio vecchio amico, Juccio Altobelli. Con lui, anche se di idee politiche diverse, io di matrice repubblicana e liberlal-socialista, lui invece comunista, si andava molto d’accordo. Un giorno mi disse se quella sera lo avessi accompagnato alla sede del suo partito, perché avrebbero parlato mio cognato il professor Stefano Canzio e la scrittrice Sibilla Aleramo. Capii subito che il Canzio in questione non poteva essere mio cognato ma il suo omonimo cugino milanese, anche lui discendente diretto di Garibaldi. Mio cognato era un ottimo giornalista e scrittore, mentre il professore era uno storico di estrazione comunista e direttore della biblioteca del popolo a Milano. Accettai di buon grado e mi recai con lui alla sede. Entrato sentii un iscritto che con accento napoletano stava tenendo una concione, e dato che i due oratori avevano rimandato l’incontro ad altra data, costui aveva preso l’occasione per esibire verbalmente la sua fede politica. Avvicinatomi lo riconobbi subito come quel lurido individuo che una decina d’anni prima aveva suscitato il putiferio in un pubblico esercizio alla vista di mio padre, perché questi all’ingresso di mio padre, con me presente, additandolo aveva gridato tra le altre cose “di sentire puzza di antifascisti”, dato che mio padre era pubblicamente un avversario politico del regime. Non mi ricordo, per sua fortuna, come si chiamasse questo splendido esempio di coerenza politica, che caduto il regime cercava di ricrearsi la sua verginità politica sotto l’ala protettrice e rigeneratrice del comunismo. Comunque l’ho ancora perfettamente presente nel fisico. Era un tipo piuttosto alto, leggermente curvo, con il naso pronunciato, un colorito marcato ed era di Pontecorvo. Lo guardai bene e mi dissi, con una frase romana, “ciarisemo”, dato che si stava ripetendo, mutatis mutandis, quello che era già accaduto a Savona e sempre ai danni di mio padre.